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Thomas More e l'Italia nel XVI secolo

La letteratura inglese moderna ebbe il suo primo fiore quando il rigoglio di quella italiana cominciava, sia pur temporaneamente, a declinare, e non fu nota e non si affermò in Italia che quasi due secoli più tardi. L’Italia di Poliziano, di Ariosto e del Tasso ignorò completamente l’Inghilterra come fattore culturale ed artistico, e la stessa conoscenza dell’idioma inglese nel suo travaglio di assimilazione e fusione degli elementi sassoni e romanzi e nel suo lento processo di chiarificazione, ci fu totalmente estranea. Che Chaucer e Langland, Gower e Lydgate fossero esistiti non contò nulla al di fuori della piccola cerchia colta dell’Inghilterra medievale, e di essi, s’intende, non si aveva nessuna nozione in Italia. Bisogna giungere all’umanesimo universalistico e cattolico di Thomas More per notare un primo risveglio di interessamento per la cultura inglese in Italia, La morte di Tommaso Moro e i di lui ideali commossero profondamente vari scrittori italiani del cinquecento, anche se la vera conoscenza della sua personalità rimase in genere scarsa, in relazione al fatto che in Italia, la diffusione delle opere moreane non potè essere che modesta. Quelle di maggior mole, i trattati polemici, gli scritti devozionali, le meditazioni di fronte alla morte, rimasero inaccessibili al nostro pubblico, causa l’insuperabile barriera del dettato inglese. Solo le versioni da Luciano, condotte a fianco dell’amico Erasmo, non tardarono a venir riprodotte a Venezia e a Firenze, e più durevole fortuna avrebbero certo incontrato, se le condanne tridentine e la generale diffidenza insorta in paese cattolico verso gli scritti erasmiani non avesse accomunato i due traduttori in un cauteloso oblio. Anche l’Utopia venne ristampata dai Giunti nel 1519, una ventina di mesi soltanto il suo primo apparire in luce, e in Italia non solo si diffuse largamente uno dei suoi primi volgarizzamenti, ma se ne stampò ancora a Seicento inoltrato un’edizione pudicamente espurgata. Infine gli Epigrammata, così vicini al gusto arcaicizzante tardo-umanistico e così ricchi di bonarie arguzie, non vennero ripubblicati fra noi, ma circolarono largamente e vennero spesso trascritti e rimaneggiati.

L’opera sua cadde del resto nell’ombra del suo stesso paese; in gran parte per le sue qualità medievali e romane che non quadravano con gl’interessi illuministici e nazionalisti degli Inglesi d’allora. Egli rimane a lungo svalutato anche quale prosatore di primissimo piano e quale filosofo, nel suo aspetto cioè di Socrate cristiano, «our noble new Christian Socrates» come lo chiamò Nicholas Harpsfield, uno dei suoi primi biografi, e quale alta coscienza morale legata alla tradizione umanistica e romana.

«Tommaso Moro è in verità molto più prossimo a Dante, come mente universale e intensamente giusta ed umana, che non ad alcun teologo protestante dai giorni della riforma in poi. Danteschi sono i suoi ideali di armonico equilibrio nei poteri che reggono il mondo: lo spirituale e il temporale. Danteschi sono pure gli ideali suoi di unità e di pace fra i principi cristiani, ideali di creativa solidarietà europea; dantesca la sua passione per l’autorità, la sua concezione della santa lietezza e dell’appagamento in Dio. Dantesca la sua solidità morale infine, il suo stoicismo pratico che lo rese spregiatore della vanagloria mondana» (Cfr. REBORA P., “San Tommaso Moro e l’Italia”, in Civiltà italiana e civiltà inglese).

La scoperta di Thomas More nel contesto della cultura italiana del secondo cinquecento può essere considerata una conseguenza naturale della nuova realtà politica, economica, sociale e soprattutto religiosa che veniva ad imporsi nella nuova Europa, un’epoca di transizione culturale in cui gli ideali umanistici che venivano affermandosi, s’incontravano con le strutture ideologiche e sociali del Medioevo, ancora vive e dominanti. Soltanto una sintesi capace di convogliare nel nuovo mondo ciò che dell’antico doveva essere salvato, avrebbe evitato lo scontro e la conseguente disgregazione della società europea. Purtroppo questa sintesi non viene a realizzarsi e il passaggio da quella che doveva essere, per eccellenza, l’età dell’uomo, diviene l’età dei bruti; da far rimpiangere il peggio dell’antica civiltà.

Dove vivono gli ideali rinascimentali pensati e propugnati dagli intellettuali umanisti? Certamente non nella società europea che vedeva disgregarsi sotto gli occhi impotenti di principi e imperatori l’unità politica costruita nel passato. Non nella chiesa che perdeva, a causa dei colpi di piccone che le venivano inferte da dentro e da fuori la sua centralità, con la conseguente disgregazione dell’unità religiosa europea. La civiltà dell’uomo nasceva all’insegna del male endemico dell’uomo, la voglia di potere e di sopraffazione dell’altro. Soprattutto in un periodo della storia in cui l’ideale umanistico veniva sbandierato come liberazione dall’influenza del divino nella storia, il rapporto orizzontale che vede l’uomo collaborare con il proprio simile per la costruzione del mondo avrebbe richiesto più che mai l’esercizio di tale influenza.

L’anima di questa civiltà che nasceva malata era sicuramente rappresentata dall’utopia di alcuni intellettuali europei che non solo “sognavano” un mondo nuovo, ma erano capaci di offrire la loro stessa vita per la promozione degli ideali umanistici.

La vita, il pensiero, l’opera e il martirio di Tommaso Moro rappresentano sicuramente l’ideale di un nuovo umanesimo cristiano destinato, per la sua forte carica spirituale, a travalicare i confini della sua nazione e della storia del Cinquecento.

Sir Thomas More

Il primato della verità sul potere

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